The show mustn't go on
Quanto ci piace mettere il naso negli affari degli altri ce lo dimostrano quotidianamente i social. Il bisogno di spettacolizzare tutto è divenuto ormai fisiologico, al pari del mangiare e del dormire. Ogni momento della giornata è buono per dare una sbirciatina nella vita del vicino di casa, così come di persone che vivono a centinaia di chilometri da noi. Niente di male, se non fosse che in un mondo fatto di continuo esibizionismo e osservazione delle proprie e altrui esistenze, si può finire col perdere il senso del limite e non riconoscere più quando è bene fermarsi, fare un passo indietro.
Per esempio, quando evitare di dare in pasto al pubblico vicende che portano dentro di sé una sofferenza così intima e personale da meritare soltanto un momento di silenzio empatico e commosso, e possibilmente l'astensione da qualsiasi inopportuno, inutile commento. La storia del bimbo lasciato dalla madre nella culla per la vita è solo l'ultima di quelle vicende che improvvisamente sembra riscuotere le coscienze di tutti. Sì, perché quando a fare notizia sono madri che non si sentono in grado, per qualsivoglia motivo, di gestire la loro maternità, quando compiono scelte inevitabilmente difficili, ma profondamente intime, private, personali, come quella di rinunciare alla creatura che hanno dato alla vita, ecco che scoppia il finimondo. Tutti a giudicare, a fare appelli, a sperare in un “lieto fine” in cui, come se si trattasse di un film, quella mamma ci ripenserà e riuscirà a ricongiungersi col neonato. E via con l'applauso.
Forse però dimentichiamo che la legge italiana consente il diritto a partorire in anonimato e di lasciare il neonato in ospedale affinché gli sia assicurata piena assistenza e tutela, anche giuridica. E forse non sappiamo che, proprio al fine di proteggere i neonati altrimenti a rischio di essere abbandonati in maniera più drammatica, dal 2006 è nata e si è diffusa l'iniziativa della “culla per la vita”: culle termiche che, posizionate negli ospedali (al momento sono presenti a Napoli, Varese, Parma, Padova, Firenze, Milano e Roma, ma vanno via via diffondendosi in maniera sempre più capillare sul territorio nazionale), possono essere aperte sia dall'interno che dall'esterno. Le madri pongono il bambino all'interno della culla riscaldata e possono lasciarlo al sicuro mentre dei sensori di calore avviseranno un medico della presenza del neonato. Una certezza che qualcuno si prenda immediatamente cura dei bimbi. L'equivalente in chiave moderna delle antiche ruote collocate vicino agli ingressi delle chiese, che in Italia risalgono addirittura al 1178.
Dare ad una donna questa possibilità non significa incoraggiare il fenomeno dell'abbandono: lasciare un figlio è comunque sempre perdere una parte di sé. Possiamo soltanto immaginare il senso di lacerazione che si sperimenta di fronte a questa decisione, e quanto possa costare, dal punto di vista emotivo, metterla in atto. Depositare il bimbo nella culla, voltarsi e andarsene, con la consapevolezza che quel bimbo resterà per sempre il proprio figlio, ma non lo sarà mai di fatto. Non sono scelte che una donna fa superficialmente, e proprio per questo motivo nel momento in cui un passo di questo genere viene intrapreso, è inaccettabile che vengano violate le basilari regole del rispetto della privacy, diffondendo nomi, dettagli, immagini, parole che ancora una volta appartengono solo ed esclusivamente a quella donna e a quel bimbo. Così come è inaccettabile la violenza psicologica ulteriore che viene esercitata su quella donna, assediata mediaticamente, criticata, messa di fronte al dovere sociale di rivalutare la sua decisione, dopo che ad essa era arrivata, chissà con quanto dolore, o magari anche no. In Italia circa 1 bambino su 1.000, non viene riconosciuto dopo il parto. Il 37,5% delle donne che non lo riconosce è composto da italiane e nel 48,2% dei casi hanno un’età compresa tra i 18 e i 30 anni (dati della Società italiana di neonatologia).
Quali possono essere i motivi che spingono una madre a rinunciare a suo figlio? Tanti, diversi, alcuni più drammatici di altri. C’è chi partorisce, ma non desidera il bambino, e la legge italiana, è bene ricordarlo, (Dpr 396/2000, art. 30, comma 2) le consente di non riconoscerlo aprendo la strada all’adozione. In fondo quanti padri rinunciano a loro volta alla paternità, senza per questo essere colpevolizzati? C'è poi chi è consapevole di non essere in grado di prendersi cura del neonato ed è disposta a separarsene per dargli la possibilità di avere una vita migliore: un gesto d'amore, quindi.
La maternità può diventare una voragine: i cambiamenti che essa comporta fisicamente, emotivamente, a livello lavorativo, nei ritmi di vita, nella gestione della quotidianità, mettono in discussione l'intera identità della donna. Una donna che diviene improvvisamente “madre” in una società in cui l'essere madre cancella ogni altro lato della persona che fino a quel momento è stata. È un’esperienza con le sue ombre e le sue ambivalenze, che non escludono il ripensamento, la paura, il desiderio di riappropriarsi di se stesse. Invece, viene considerata un destino biologico, un cammino fatto di sacrificio e di amore incondizionato, dato per naturale e quindi scontato. Come scrive Marilde Trinchero ne “La solitudine delle madri” (Magi editore): «Il conflitto si gioca tutto all’interno dell’animo femminile, dove convivono contraddizioni e sensi di colpa, perché diventare madri, in una società che considera la maternità la realizzazione autentica del femminile, l’unico scopo vero di un’esistenza votata ad allevare figli, chiude le donne in una gabbia, per molte fatta solo di sacrifici e di rinunce».